Sono già stato interrogato sul tempo necessario per svolgere questo allenamento.
Quante pause ci vogliono per completarlo, cose del genere.
Più volte, più persone. Anche da una sola persona.
Raramente sul perché, però.
1001 è un numero niente male, forse anche redibitorio. Se si tratta di salto alla corda o di addominali, va bene. Ma se parliamo di squat, diventa una tutt’altra storia. Non ha nulla di divertente poi. Quelli e quelle che hanno eretto delle statue in onore di Jocus non ne capiranno mai il senso o l’interesse. Esattamente come i frenetici consumatori dell’istante presente, prendono senza lasciare niente. Senza preoccuparsi di sapere cosa rimarrà per gli altri dopo il loro passaggio.
All’inizio, la novità e la dimensione della sfida con sé stesso ci euforizza e ci procura un’energia potente. Poi lo fai tre o quattro domeniche di fila e inizi a pensare che non sarebbe cosi brutto passare direttamente dal sabato al lunedi. Senza passare dal giorno del cigno-re. Sono passati tre mesi e ci sono state alcune domeniche dove non volevi mettere un piede fuori dal letto, figurati fare degli squat! Passa un anno e pensi che ogni tanto hai veramente delle idee di merda. Difficile avere un umore sempre uguale, o una motivazione sempre alle stelle. Diciamo impossibile, a parte nei libri.
Esattamente come nella vita dove s’impongono dei momenti difficili da superare, delle prove che alterano la nostra vitalità. O peggio, l’annientano. E quindi? Non possiamo smettere di vivere solo per quello. Secondo me il blocco dei 1001 è una metafora della vita, un riassunto in accelerata delle fluttuazioni del nostro umore. Ci impone il dilemma di non lasciargli governare le nostre azioni. Per questo possiamo coltivare una disciplina del “qualunque cosa accada”, dello sforzo o del contrasto molto forte. Il contrasto questiona le nostre certezze, le scuote, forse. Ma alla fine ne escono più salde. Perché sono state provate, quindi convalidate. Ci sono giorni in qui tutto pesa, ok, no problemo ciccio, andiamo con calma ciccia. Uno squat dopo l’altro, tranquillo. Se ne puoi fare uno, ne puoi fare due. Se ne puoi fare due, ne puoi fare cento. Quando hai capito questo ne fai 1001, al tuo ritmo.
I 1001 squat allenano prima la mente, la sostanza. Poi il corpo, lo strumento.
Una prima tappa sta nell’accettare il dolore. Quello dello sforzo, non quello del martiro, pronto a sacrificarsi per una battaglia a cui non avrebbe mai pensato. Non sapendo poi in che cosa consiste. E li vediamo questi illuminati, di cui si esalta senso del dovere e della morale, buttati sull’altare dell’interesse dei pochi.
Sí anche nella nostra comunità, o quello che ne rimane perlomeno.
Quando abbiamo accettato la fatica, lo sforzo, dobbiamo mantenerlo per affrontare la seconda tappa. Ignorare le piccole voci che ti suggeriscono: smettila se brucia, torna a casa se è troppo duro, razzo! Quanto è noioso!
Non facile, certamente, ma lo è sicuramente di più che andare a fare la guerra per conto di stronze e stronzi, evitando di schierare le loro progenie di fronte ai cannoni.
Se abbiamo resistito, ecco che bussa la terza tappa, il second-souffle.
È la capacità di accelerare o aumentare l’intensità quando si pensa di aver dato tutto.
Scopriamo allora delle risorse di cui non sapevamo nulla.
Ancora una volta, è la testa a fare la differenza. Lo spirito.
Spirito forte. Yamakasi.