l’Art du Déplacement nelle scuole

Domani, insegnare l’Art du Déplacement nelle scuole come materia a pieno titolo costituirebbe l’improbabile culmine di un’avventura umana fuori dal comune, siamo molti a pensarlo. Guardando più da vicino, quindi considerando la coerenza e la tenacia del nostro impegno negli ultimi due decenni, un tale scenario non avrebbe nulla di oltraggioso. Al contrario.
Potrebbe diventare il tipo di intrigo da districare attorno a un fuoco, con un sorriso nostalgico che illumina i nostri volti rugosi e perché no, occhi stanchi illuminati dall’orgoglio. Sì! A settant’anni si avrà il diritto di menarsela.
Solo un po’, cinque minuti, non di più.
La storia dei figli dell’asfalto forse un giorno incarnerà lo spirito di vendetta sulla fatalità, a meno che non diventi la voce dei disperati o un faro per i smarriti. Oggi, in questo momento, insegnare l’Art du Déplacement nelle scuole potrebbe mettere l’ego su un piedistallo smisurato e anestetizzare la voglia di andare avanti, come per quello al passato pieno di “io ero” polverosi esposti in vetrine d’oro, ma vuote di “io sono”, persistenti, al presente.

Ho cambiato idea quando ho capito la necessità di avviare una seconda rivoluzione culturale dopo la prima innescata dall’Art du Déplacement: L’attività motoria all’aperto senza ricorrere ad alcun materiale o attrezzatura particolare, senza complessi, assolve dallo sguardo e dal giudizio degli altri, generando una riappropriazione dello spazio urbano e sua rivitalizzazione. So che sembra una cosa da mangiatore di funghi allucinogeni, un po’ secondaria, anche astratta per l’amante del fischietto e il devoto del manganello, ma ovunque ci sia attività sportiva, quindi vita, c’è meno tensione e più tranquillità, i luoghi sono più puliti, meglio tenuti, più spesso dagli stessi Yamak.
Inoltre L’Art du Déplacement sconcerta e contamina l’immaginario dell’immobile.
Passivamente, con la nostra semplice presenza e con le nostre azioni limitiamo dunque la formazione di ghetti, contribuiamo a rendere lo spazio pubblico veramente pubblico, gli aneddoti su l’argomento sono numerosi, e questo in varie parti del mondo. Prima o poi qualcuno ci dovrà concedere questa verità. Poi la nostra filosofia del movimento incoraggia un comportamento cittadino, senza discorsi da domatore di mosche o addestratore di farfalle che nessuno ascolta.

Prima di noi tra i sportivi, ci sono stati soltanto corridori per le piazze e le strade.

Per il momento la vedo difficile la seconda rivoluzione culturale, davvero. Forse mi mancano delle informazioni e questa carenza può impedirmi di avere una visione completa del quadro. Così con quello che so e ricordo, l’insegnamento dello sport a scuola si basa su un insegnamento di massa, se stesso in linea con la performance universale sancita dai voti. Suppongo per stimolare gli studenti e ottenere un minimo coinvolgimento da loro.
In questo modo, che lo si voglia o no, si alimenta un clima di concorrenza ed è un’ottica super logica, dato che ci sono delle classificazioni. Capisco che il mondo impone una certa competitività. si deve meritare il suo posto, queste sono le regole del gioco, quindi capisco il bisogno irrefrenabile di essere preparati per affrontare una realtà cannibale, al suo parossismo, ça va sans dire.
Ma siamo sicuri e certi di premiare sempre il merito? Per determinarlo bisognerebbe applicare criteri imparziali, immergere tutti in un contesto identico e offrire le stesse soluzioni, altrimenti il dubbio sussisterà nello spirito critico.
So che è un’altra storia.
Fuori dalla scuola, ancora una volta, la finalità della pratica sportiva è la competizione, il più delle volte. Quindi consapevolmente o inconsciamente si iscrive un bambino in uno sport più di un altro in funzione dei titoli che potrebbe vincere, o di come la sua abilità potrebbe essere sottolineata. Dagli altri.
Detto ciò, non è male per incoraggiare e aumentare l’autostima, anche se in questi casi non nasce da una presa di coscienza interiore ma da un’omologazione esterna. Soprattutto non dovrebbe avvenire a scapito della prova, del confronto con se stessi.
Quando svaniscono le possibilità di raccogliere medaglie e applausi si smette di praticare l’attività sportiva, perché la finalità perde la sua ragione di essere. Certo esiste una vocazione *ludica nello sport, oeuf corse!
Appena le prime rughe appaiono la dimensione ricreativa viene repressa, se non colpevolizzata, perché è arrivato il momento di smettere di cazzeggiare.
Perché la vita da adulti lo impone. Così si dice. Di conseguenza non si può essere sorpresi di constatare un aumento della sedentarietà e di desolarsi dei mali che ne derivano. A tutte le età, ma c’è una crescente preoccupazione per l’obesità infantile sempre più precoce e diffusa. La sindrome del ribelle seduto preoccupa: l’abdicazione senza la lotta.
Già ci sono mille scuse al giorno per non alzare il culo dal divano, e ci sono così tante tentazioni per fare la mummia. Niente panico ragazzi! Il genio buono e magnanime risolverà i nostri problemi! Ma sì! Risultati garantiti senza sforzi e miracoli più istantanei del solubile e dell’acqua messi insieme. Abracadabra!

Perché non proviamo a cambiare prospettiva?

Come realizzare un lavoro educativo di grande portata, ambizioso, consistente nel far capire agli uomini e alle donne in divenire che non devono vivere cercando di entrare nello stampo ideale, perfetto. Questa dittatura della perfezione è d’altronde decretata da coloro che vivono lontano dalla realtà.

Impongono standard generici e statistici poco rappresentativi della diversità del mondo. Esclusivi e non inclusivi.
Veniamo tutti al mondo con caratteristiche distinte, fisiche e mentali, e diverso non dovrebbe essere sinonimo di anormale o difettoso, ma al contrario di ricchezza. Non mancano belle parole per elogiare la diversità, no, ma c’è una bella carenza di azioni. Non bastano interventi puntuali per sensibilizzare o fare buona figura, occorre agire in modo duraturo e alla base.
La battaglia consiste nell’accettazione concreta e generale delle differenze poiché, oltre ad instaurare un rispetto reciproco, legittima l’uno o l’altra nello sguardo di ciascuno. Senza necessariamente avere gli occhi a forma di cuore o una testa di Teletubies strafatto di Lexomil.

È opportuno creare il quadro in cui illuminare le peculiarità e le abilità di tutti,
e l’Art du Déplacement originale propone naturalmente situazioni in cui ciascuno potrà esprimerle senza alcuna giustificazione.
Quindi ognuno avrà uno spazio-tempo per coltivare qualcosa per sé e affermare la propria identità. Una stronzata? Forse. Si utilizzeranno strumenti e parametri in cui gli alunni saranno direttamente coinvolti nella propria valutazione. Sui punti di forza e di debolezza. Vorrebbe dire responsabilizzarli: Dare loro fiducia. Un’altra stupidità? Il potere pedagogico nell’accordare la fiducia è inimmaginabile. Si passa da spettatore a attore, da corpo esecutore a corpo pensante. La collaborazione da parte dell’allievo è migliorata in quanto è direttamente coinvolto nel processo educativo. Un esempio banale: quando alleno i bambini o gli adolescenti do degli esercizi in determinate quantità, non controllo che facciano esattamente il numero dato. E io lo spiego, quando imbrogliano non ingannano me, ma se stessi. A tal proposito, ha il vantaggio di lasciarmi più energia per il training proprio e meno sul flicage. Alla fine, se qualcuno bara almeno si sarà mosso un minimo, e essendo flessibile il rischio di disgustare una persona per sempre dell’attività fisica è inferiore. Inoltre dall’inizio d’una sessione chiedo chi è venuto per il training realmente e chi è venuto perché sta cercando degli amici nella vita. Chi è stanco, chi è stufo.
In funzione delle risposte chiedo un impegno minimo, sdrammatizzando o rimuovendo il senso di colpa, la prossima volta si cerca di avere un maggiore impegno, intanto il minimo sindacale è accettabile. Naturalmente non si fa con un colpo di bacchetta magica, è anche faticoso, soprattutto all’inizio quando si fa l’apprendimento della libertà e dei limiti. Bisogna accompagnare, guidare, proporre e poi diventare meno invadenti man mano che gli alunni hanno le motivazioni più chiare e la consapevolezza del loro stato psico-fisico.

Ci vuole sempre più tempo per farsi capire piuttosto che farsi obbedire.

Richiede pazienza e ostinazione. E benevolenza verso l’altro, la base. Se ci saranno valutazioni dovranno sancire un percorso, riflettere i progressi compiuti da ciascuno, il rispettivo impegno dell’individuo. Sarà più giusto e non solo lo studente in questione potrà misurare il cammino percorso, anche gli altri. Così si lavorerebbe esplicitamente sull’inclusione. Alle medie correre 4 km in venti minuti dà il massimo dei voti. Ma se all’inizio del ciclo atletico un ometto non riesce a fare 4 km senza fermarsi, ma alla fine riesce a coprire quella distanza senza interruzioni, perché non avrebbe anche lui il voto massimo?
Si tratterebbe di un riconoscimento inequivocabile della performance individuale, del suo impegno e per estensione della sua persona. Tale riconoscimento ha un certo peso in quanto è conferito da un’autorità comune a tutti e indiscutibile.

Quando si pratica l’Art du Déplacement in gruppo si riconosce il valore di un’azione con un applauso, a volte solo uno sguardo. Non so perché, ma è così minimalista da quando abbiamo iniziato. Non esibisci le tue emozioni anche se dentro di te c’è un uragano di gioia. Stessa cosa se ci ferivamo o se qualcuno ci offendeva. Era una protezione personale e un modo per non parassitare il gruppo con eventi negativi, tenerlo compatto. Tradizionalmente si sottolinea il coraggio, il superamento della paura, del blocco e dei dubbi dell’individuo. Ciò non significa negare la prestazione universale che rimane un punto di riferimento, come non si tratta di far credere che siamo tutti meritevoli per la semplice grazia della giustizia celeste. No, sarebbe prendere uno studente per un coglione o una cogliona e non prepararlo per la vita che verrà. Se un giorno l’Art du Déplacement venisse promosso nelle scuole come strumento per sostenere lo sviluppo dello studente, quindi con una visione globale e a lungo termine allora prenderebbe un’altra piega perché marcherebbe un vero riconoscimento della performance individuale. Oggi si può insegnare l’Art du Déplacement nelle scuole naturalmente, fare degli esperimenti, dare un assaggio come attività extra-scolastica, per esempio, farebbe gli affari degli allenatori e delle istituzioni. I primi hanno del lavoro, legittimati dalla prestigiosa vetrina dell’educazione nazionale e i secondi giocano ad avere la mente aperta. Ma temo che, in cambio di una situazione economica più serena, questi famosi allenatori si addormentino un po’ e si lascino sfuggire l’occasione di cambiare le regole del gioco.
È già successo, c’è stata l’opportunità di dare un calcio nel formicaio, in particolare in Italia. Detto questo, comprendo che la scuola in quanto istituzione debba formare in modo efficace e in tempi abbastanza precisi un massimo di lavoratori. La prima missione della scuola è prepararci per un lavoro, nessuno si aspetta meno, a cominciare dai genitori. Gli insegnanti, per averne incontrati un po’, hanno a cuore la trasmissione, l’educazione, ma al mercato del lavoro non importa se una persona è istruita, colta… Vuole abilità, punto e basta.

Figuriamoci se si preoccupa della sua felicità che calpesta ai suoni della banda dei barbari. Ma un lavoratore felice e competente potrebbe diventare un valore aggiunto per un’impresa, una risorsa perché più produttiva e stabile. Ci è anche lecito pensare che sarebbe più in forma, in salute, quindi sarebbe un peso in meno sulle spese globali della sanità, per rimanere pragmatici e non troppo “magici”. Meglio prevenire che curare.
Sì! Sì! Lo so, sogno in piedi, speculare sulla prevenzione è un’arte troppo astratta e non fa guadagnare tanto quanto curare. Non abbastanza croccante neanche per i cronisti del male in peggio. Oggi è al di fuori della macchina distributrice di mestieri che l’Art du Déplacement può esprimere al meglio il suo potenziale, perché attraverso la sua rete di associazioni e scuole, è fortemente radicato nella realtà. Costituisce quindi un legame naturale e concreto con i circoli primari che sono la famiglia e la scuola. Pertanto il nostro ruolo è importante e inizia con l’esemplarità. Senza l’obbligo di dare un mestiere o di assegnare dei trofei si può dare serenamente il nostro contributo nella preparazione degli uomini e delle donne di domani. Tizio potrebbe obiettare che spetta ad ogni genitore fare la sua parte di lavoro e Caio si prenderebbe la palla al balzo affermando che spetta anche a ciascuno di muoversi, senza aspettare che la salvezza venga da altri. È vero. Tizio numero due avrebbe allora il diritto di dire:

-Quando ogni giorno è una battaglia, è difficile pensare al di là del giorno dopo, dell’urgenza.

E noi siamo presenti anche per loro.
Siamo qui, accanto a coloro che sono dimenticati, a coloro che non entrano nelle caselle, un po’ emarginati, incompresi. Anche un po’ sfortunato, arrivati nel posto sbagliato al momento sbagliato. D’altronde abbiamo iniziato con loro, perché non entravamo nemmeno noi nelle caselle, eravamo noi, grezzi, con il cuore e le budella.
Non si cacciava l’etichetta «frequentabile» mentre oggi la maggioranza vuole far parte del bestiame.

Non facile per un gatto randagio belare.

*Ludico: Oggi, nelle variazioni dell’Art du Déplacement, la ricerca del gioco è troppo forzata ed è messa al centro dell’attenzione come se fosse l’obiettivo mentre è il mezzo. Gli allenamenti sono fatti per compiacere a scapito del contrasto. Trovo che sia un messaggio pericoloso trasmesso ai piccoli uomini e alle donne in divenire: Faccio quello che mi piace, seguo il mio umore e le mie voglie, spesso sfocia in una parodia della libertà. Per i praticanti più anziani capisco che può essere più stimolante, sia per chi ha scoperto tardi le gioie dell’attività motoria sia per chi si muove fin dai suoi primi passi.