Preambolo
L’Art du Déplacement è una disciplina completa basata principalmente su delle azioni motorie come la corsa, il salto e l’arrampicata, nell’obbiettivo di superare ostacoli o interagire con essi. In più, all’interno di queste azioni sono sollecitati tipi di sforzi apparentemente opposti ma complementari in realtà. La tecnica del saut de bras che richiede esplosività, resistenza, robustezza e leggerezza sarebbe un’illustrazione significativa di questa complementarità. Nella pluralità scritta nel DNA dell’Art du Déplacement, dove il rischio di specializzazione è minore, vedo uno dei segreti, forse il primo, nella longevità che possiamo avere nel movimento. Ne deriva una ricchezza tecnica a cui tutti possono avere accesso e dove tutti possono trovare qualcosa per sé.
Conseguenza diretta: l’Art du Déplacement, come lo pratichiamo e lo trasmettiamo, è una DISCIPLINA INCLUSIVA.
Conseguenza indiretta: Insegnamento passivo ma effettivo della TOLLERANZA
Torno sull’argomento di come, per anni, mi sono limitato a definire l’Art du Déplacement: Partire d’un punto A ed arrivare ad un punto B, saltando, correndo o arrampicandosi usando l’ambiente circostante. Se non ho espresso più concetti di quello non era per pigrizia o incapacità a formulare le mie idee. Vivevo la pratica e la facevo vivere agli altri. Poi lo spessore e la consistenza oltre l’apparenza mi era talmente evidente. Lo era anche per chiunque cercasse qualcosa di inespresso dentro di sé, e non raggiungibile in superficie ça va sans dire.
Col passare del tempo nella trasmissione e la rappresentazione dell’Art du Déplacement (ADD) ho dovuto mettere dei sottotitoli perché sì, ero stufo di sentire i praticanti meteo ed astrali, o finti pensatori raccontare ed analizzare quello che facevamo. Poi argomentavano sulla base di frasi magiche in giro nell’etere, e la spacciavano come la verità suprema. Quindi l’ADD consiste in primo luogo nell’utilizzare al meglio le nostre risorse fisiche, mentali e creative di cui disponiamo nelle diverse fasi della nostra vita. Approfondirle se ne abbiamo voglia. Così vedo e promuovo l’Art du Déplacement: Semplice, leggibile ed accessibile. Un confronto onesto con se stessi, circondato dagli altri, volto a migliorare la percezione delle proprie capacità, e quindi la loro piena consapevolezza.
Indubbiamente l’assenza di competizione aiuta a preservare l’integrità fisica d’un praticante e ad avere una visione a lungo termine. Nell’Art du Déplacement il praticante viene chiamato Yamak, in riferimento alla nostra storia Yamakasi, pilastro della filosofia dell’Art du Déplacement e le correnti poi generate. Ho scelto di affrontare il tema della longevità perché la mia esperienza può aiutare qualcuno intenzionato a viaggiare per un po’ nel movimento. In più, intorno alla durabilità posso toccare altri soggetti intimamente connessi.
Scelgo di cominciare dall’infortunio perché è il primo ostacolo alla longevità che viene in mente generalmente.
Quante persone dichiarano:
-Mi piacerebbe fare la stessa cosa ma ho le ginocchia a pezzi!
Insomma, se siamo stati abbastanza furbi da non moltiplicare troppo gli infortuni di circostanze, avremmo comunque a che fare con l’infortunio di usura. Eh già! Il tempo mette a dura prova il nostro organismo.
Non credo sia possibile sfuggire all’infortunio e non esiste un metodo in grado di evitarne la comparsa neanche se si appartiene al popolo dei fiori e delle piume. Il meglio che si può fare è limitarne l’apparizione, la frequenza e l’impatto.
Ho capito negli anni che ognuno di noi dovrà trovare la sua ginnastica di risveglio e di pre-allenamento. Quella di risveglio può consistere in movimenti semplici e dolci al mattino, prima d’iniziare una giornata di lavoro per esempio. È come mettere un po’ d’olio su porte scricchiolanti. Riguardo alla ginnastica di pre-allenamento, ormai durante quasi tutti miei workshop, lascio almeno 6 minuti ai partecipanti per entrare nello stato mentale dell’allenamento. Di solito chi si muove da molto tempo manda una serie di segnali ben specifici per significare a sé stesso, stessa che è giunto il momento dell’allenamento, è un po’ come accendere la luce nel buio. L’ho chiamato rituale, forse per qualcuno sarà bere un caffè o scambiare due parole con un amico. Facendo così si ottiene maggior attenzione e reattività alle varie equazioni fisiche o tecniche proposte, quindi l’ipotesi d’infortunio perde rilevanza.
INNANZITUTTO PREFERISCO RESPONSABILIZZARE E VALORIZZARE LE STORIE DI CIASCUNO.
Ho evocato l’infortunio di circostanze, quello risultante da un salto, una tecnica o un esercizio. Per limitarne la comparsa, e quindi compromettere il meno possibile i piani della longevità, conviene sottoporsi ad una buona preparazione fisica generale. Non dettata soltanto da movimenti da eseguire o da preferenze per standard estetici ma dai bisogni generali del corpo. Le azioni ripetute di salti sono molto esigenti per il corpo, come quando si passa dalla spinta all’atterraggio. Estensione/compressione in un arco di tempo molto breve per dirne una. In più, per la maggior parte del tempo e per la maggior parte delle persone che vivono in città, il suolo è fatto d’asfalto, cemento.
Chiunque abbia un po’ di buon senso e si proietta lontano nel muoversi non può ignorare quanto sia duro ed aggressivo il cemento per il corpo. Sì! Anche quando si è il campione internazionale dell’atterraggio morbido. Necessariamente dobbiamo pensare alla preservazione dell’integrità fisica, a tentare di costruirsi un’armatura naturale. Un compito arduo quando puntiamo contemporaneamente allo sviluppo del potenziale, soprattutto al momento della fanciullezza, lì dove si trova la finestra ideale per sfruttare al meglio la massima forza in divenire. Li dove ci sono più mezzi per conquistare il mondo in ottanta secondi.
Il paradosso del performer.
Quando invecchiamo il principio è molto diverso. Dopo un allenamento che ha consumato tanta energia, fisica e mentale, è indispensabile fare un allenamento riparatore, almeno per riconnettere e ricompattare di nuovo tutte le parti del corpo tra di loro. Per esempio dopo un training di pliometria fare un training di agilità sulle sbarre, spesso faccio così. Con l’età abbiamo ancora dei momenti di forza e di grazia naturalmente, delle fulgurances, ma più ci si allontana dalla gioventù più raramente si presentano, e più corti sono. Come un treno che fa un viaggio sempre più lungo prima di fermarsi alla fermata Super Power. E aspetta meno. Però abbiamo una migliore consapevolezza di ciò che facciamo e come. Non significa intellettualizzare e complicare ogni singolo movimento, esercizio o tecnica. Non nel momento dell’azione in ogni caso.
Poi parlare di super coscienza perché muovi un dito dopo l’altro… Devi smetterla di scherzare.
Credo nella semplicità, come praticante o come coach. Allenandomi con un minimo di serietà so ascoltare il mio corpo e se mi azzardo ad esagerare, lo capisco. Posso fidarmi del mio istinto perché esiste una reale connessione tra testa e corpo grazie ad una pratica costante.
Vivo e respiro quello che faccio anche quando non mi alleno, credo che si debba parlare di arte di vivere.
Piccola parentesi: Con questo modo di pensare ho sviluppato una capacità d’osservazione acuta che mi permette di analizzare rapidamente una persona durante un allenamento, per poi metterla davanti ad una sfida adatta, col giusto grado di resistenza.
Il superamento di queste sfide è direttamente coinvolto nella determinazione delle nostre CERTEZZE, la loro acquisizione. È una tappa vitale perché incrementa la fiducia in noi stessi, quindi l’autostima. Chiunque sia interessato alla trasmissione e qualunque sia la disciplina può immaginare senza fatica i benefici di tale pedagogia. Inutile fare un disegno. Ho notato quanto sia importante poter capitalizzare sui nostri progressi, quindi occorre limitare le interruzioni nelle fasi di ASSIMILAZIONE. Prendere il tempo di confermare e convalidare ogni passo per non dover tornare sempre sui propri passi. Quando la tecnica o il movimento diventa facile allora uno riprende la sua marcia in avanti. Di solito, per me o quando alleno gli altri, passo d’un piano a l’altro quando la serenità governa nuovamente la mente dopo eventuali interferenze.
Troppe persone ossessionate dall’immediatezza sollecitano la forza atletica senza avere il corpo pronto a supportare continuamente questi sforzi. O sono spariti, o non riescono a tornare come una volta. Perché hanno bruciato il potenziale senza curarlo. Senza proteggersi. Faccio una piccola deviazione: Ultimamente vedo quanto sia in voga il training di forza pura con i pesi. Perché no? Ci ho provato senza perdere il training di protezione e soprattutto ha rappresentato una percentuale minima delle mie ricerche nell’allenamento.
Il bello dell’Art du Déplacement è di sfruttare al meglio quello che già esiste. Con Yann, Chau e Williams eravamo avanti sull’idea dell’ambiente e del riciclaggio delle risorse esistente. Inoltre abbiamo avviato una piccola rivoluzione culturale con l’attività sportiva e motoria riportandola fuori, evitiamo di ripotarla nello zoo. Mi sono un po’ perso…
Nel momento dell’infortunio è molto importante rimanere nella sua zona di confort se non si vuole smettere del tutto muoversi. Quando lo faccio, rimango sempre sotto la soglia del dolore. L’allenamento è riuscito se non ho peggiorato la situazione, cosi ne limito l’impatto.
Oltre a rallentare la progressione, l’infortunio lascia uno o più segni nel corpo, sull’instante e nel futuro. Noi riusciamo a dimenticarlo ma lui quasi di sicuro si farà risentire un giorno. Quindi diventa un punto di debolezza permanente e dormiente, non solo per la parte danneggiata ma per tutta quella intorno. Prendiamo una storta alla caviglia, non solo l’articolazione stessa è compromessa, ma tutta la gamba fino alla schiena. Può minare anche le nostre convinzioni, quindi le nostre certezze. Per me, e credo per tutti quelli che hanno una visione a lungo termine nel movimento, il corpo è come un puzzle. Manca un pezzo e non c’è più equilibrio.
Quando mi alleno o alleno gli altri non cerco l’estetica ma L’ARMONIA, per motivi che spiego nella mia filosofia di trasmissione.
Per quanto vario possa essere l’Art du Déplacement, abbiamo affinità nei movimenti, istintive o condizionate dalla nostra naturale identità motoria. Una preparazione fisica generale permetterà di armonizzare il vuoto tecnico e fisico risultante dalle nostre preferenze. Ho avuto la fortuna di non aver ricevuto nessun aiuto dalla genetica e quindi ho dovuto lavorare un sacco. Un male per un bene, mi ha insegnato il valore della determinazione, del lavoro e dell’impegno. La mia seconda fortuna è stata di capire rapidamente che la nostra pratica è molto esigente fisicamente e che i salti consumano ma non preparano il corpo, soprattutto le articolazioni, come tutti gli sport fatti di corsa, cambi direzione, atterraggi, spinte. Impossibile ignorare il falso dibattito tra qualità e quantità, come se dovessimo fare una scelta radicale e definitiva tra queste due filiere di esercizi. Un’assurdità, chiunque passi realmente del tempo sul campo sa che sono ugualmente importanti. Sulla durata per esempio si addestra la volontà e la disciplina. Imparare a finire non è scontato, nemmeno a non mollare quando le difficoltà s’intensificano.
Dentro la preparazione fisica generale distinguo l’esercizio specifico da quello generale. Il problema dell’esercizio specifico è che molto spesso è dettato dai social o da Youtube. Da un impulso o dalla moda, non da una ricerca personale, dalla consapevolezza d’una carenza.
Gli esercizi generali puntano alla protezione del corpo, l’armatura naturale. Per questo motivo ho creato il mio training dei 101 molto, molto tempo fa, l’ho chiamato body armor. Era vitale in questa routine non aver bisogno di niente, di poter farlo ovunque e che fosse in movimento. Ultimamente, il body armor è diventato il mio appuntamento col fisioterapista, per ricompattare tutte le parte del corpo.
Devo fare una piccola deviazione, un’altra, e dire che sono stato allenato da Yann, poi ispirato da Chau e Williams. Nessuno di noi seguiva una moda, un umore, ci preparavamo per la vita a venire.
So che arriva come un capello nella zuppa, ma per esercizio, quando ne parlo, intendo in anzi tutto INFORMAZIONE. Avviso il corpo delle possibilità di movimenti, o gli ricordo che c’è più di quello che serve, basta tirarlo via dal suo torpore.
Davanti a nuovi esercizi o sfide tecniche, Molti dichiarano facilmente:
-Non sono capace, non ho i muscoli!
-Io mi ammazzo!
Privati d’informazione il corpo e la testa hanno un margine ridotto d’azione, dunque niente consapevolezza oggettiva. Dopo aver creato stimoli, e dopo un po’ di pratica si potrà parlare di capacità o incapacità, anche se alla fine ci rendiamo conto che si tratta di avere abbastanza voglia di fare o meno. È un ragionamento che adotto nella mia pratica giornaliera, non solo quando alleno gli altri. Faccio un lavoro costante sulla riscoperta e riappropriazione delle funzioni del corpo attraverso l’apprendimento di nuovi movimenti, nella mia disciplina o in altri sport. Nel mio approccio personale, praticante o trasmettitore, ho una certa tolleranza dell’errore. Per esempio sappiamo che all’atterraggio non dobbiamo andare avanti con le ginocchia e perdere la tensione muscolare che le protegge, è il classico dei classici tra i principianti. In realtà se succede non è un dramma, una debolezza può diventare un punto di forza. In questo caso informo le gambe che è possibile sbagliare e in questo modo imparano a difendersi, a reagire.
L’ECCEZIONE NON DEVE DIVENTARE LA REGOLA, E VOILÀ
Durante una o più serie di squat saltati mi ritrovo di nuovo nel concetto dell’informazione: Quando toco terra preparo il corpo a reagire all’impatto e sviluppo dei riflessi di difesa. Delle cosce di mammut che rispondono male agli choc o in ritardo servono soltanto a riempire pantaloni larghi. (Per me ci sono due tipi di riflessi di difesa, quello inibitorio e quello protettivo, ne riparleremo un giorno.)
Secondo me un coach, in qualsiasi disciplina, dovrebbe essere in grado d’individuare le zone di confort, lavoro e stress di ogni persona che allena. Quando ci si allena da soli il dilemma è lo stesso. Trovare il giusto livello d’impegno ci chiama ad essere presenti nel momento e nell’azione. Ritrovarsi nella zona sbagliata, per troppa difficoltà o facilità indebolirà la motivazione, l’interesse e l’azione da eseguire. Ne risulta una stagnazione pericolosa per la volontà d’agire. Stare nella zona di lavoro è la situazione dove incontriamo resistenza e difficoltà, necessita une forte mobilizzazione, ma non massimale, del corpo e dello spirito. Si sviluppa così una cultura del combattimento e dello scontro contro sé stessi, quindi una tenacia notevole possibilmente applicabile nella vita quotidiana.
Chi ha una certa esperienza deve interrogare le sue certezze, fare entrare ragionevolmente il dubbio. Personalmente provo a rompere la monotonia degli allenamenti facendoli evolvere o importando delle sfide accettabili. Il mio obbiettivo: Rompere il carattere ipnotico delle ripetizioni e richiamare l’attenzione della testa in permanenza. Ho detto considerare l’esercizio prima di tutto come un’informazione, più ne daremo al corpo e alla mente e più strumenti avremo per esprimerci. In più si svilupperà una facoltà d’adattamento e incrementeremo la capacità a rispondere a delle nuove domande, forse quelle d’un nuovo sport per chi non vuole smettere di esplorare. Un principiante non può interrogare troppo le sue certezze, ci deve capitalizzare sopra per aumentare la fiducia in sé e raggiungere uno stato di consapevolezza oggettiva, quindi una forza interiore, indipendente dalle circostanze esterne o contestuali a qualsiasi azione da compiere.
Durante la trasmissione ho individuato il periodo di FAMILIARIZZAZIONE, dove lascio alla persona il tempo per sperimentare ed esplorare. Rende più fluido il processo di scoperta e di comprensione delle proprie capacità e rinforza il sentimento della vittoria personale, nel senso che gli appartiene.
Non si tratta di fargli credere che sia sua e prenderla per un coglione, ma lasciargliela conquistare. Accompagnarla. Se siamo troppo invasivi e scolastici, mettiamo il praticante in posizione di eseguire soltanto e nuoceremo all’acquisizione delle sue certezze di cui ho parlato sopra. È un lavoro di fondo, lungo e laborioso, è il costo dell’educazione. Caro e allo stesso tempo senza prezzo per chi ne beneficia. Quando imparo delle nuove tecniche o riprendo in mano vecchi movimenti dimenticati, rimango tranquillo nella tappa di familiarisation, niente obbligo immediato. Per obbligo non intendo necessariamente un risultato ma un impegno mentale. Questo modo di pensare mi ha portato naturalmente al concetto di PERFORMANCE INDIVIDUALE, vuol dire considerare il punto di partenza quando si guarda il punto d’arrivo. Così e solo così posso dare un valore alla strada percorsa. Il tutto senza perdere l’elemento FRUSTRAZIONE! Eh già! La frustrazione è inevitabile dal momento che apprendiamo qualcosa di nuovo, dobbiamo ricordarcelo per non auto-distruggersi con la nostra estrema severità o le nostre aspettative affrettate. Tengo sempre in mente che c’è più grave nella vita che non riuscire a fare un salto, anche se sul momento sembra la cosa più importante. Ovviamente non possiamo rimandare ogni volta il dovere d’azione, sennò non acquisiremo le nostre certezze.
SUGLI ERRORI E DISFATTE IMPARIAMO, SULLE VITTORIE E CONQUISTE COSTRUIAMO.
A proposito della motivazione: E più stabile e durevole avere obbiettivi che nascono da profonde motivazioni personali. Per quanto possiamo essere ispirati da altre persone, non devono essere il nostro motore, la nostra ragione di muoversi. Elementare no?
Nel mio approccio promuovo l’idea di gruppo, YAMAKASI è un gruppo, il motto dell’Art du Déplacement è INIZIAMO INSIEME, FINIAMO INSIEME… Ma non significa rinegare l’individuo, al contrario perché innesca un circolo virtuoso: Più l’individuo è forte e più il gruppo lo diventa e alimenta di nuovo gli individui. Anche se è evidente per me e lo spero per molti altri, devo precisare che questa alchimia ci mette naturalmente l’uno al servizio dell’altro. Detto ciò, sono persuaso che nella longevità uno dei segreti è di sapersi allenare da solo, senza dover aspettare l’amico che un giorno o l’altro avrà altre cose da fare. E non c’è il minimo motivo per desolarsene, così va la vita per mille motivi.
Senza lo spazio creativo indissociabile dell’Art du Déplacement, la performance individuale avrebbero meno ragione d’essere. Incoraggiare l’esplorazione e la scoperta favorisce la presa d’iniziativa e la ricerca di soluzioni. Oltre a l’adattamento che a più a che fare con una reazione, è proprio lo spirito creativo che si coltiva. Spontaneamente e semplicemente in maniera concreta. Un aggiornamento perpetuo delle connessioni neuro-muscolare et delle funzioni cognitive sono alcuni dei benefici da mettere a credito di un tale modo di pensare l’attività motoria.
Per questo e altre ragioni considero l’Art du Déplacement come la filosofia del corps pensant, in opposizione al corps exécutant: il corpo recita schemi e formule magiche senza cercare eventuali soluzioni. Di solito sono atteggiamenti di sport di massa che puntano la competizione ed hanno come riferimento la performance universale. Tali sistemi annientano l’identità dell’individuo negandogli il diritto a la differenza. Ne risulta un approccio elitista, poco inclusivo dove pochi si possono riconoscere a lungo andare.
E oui! La finestra della super forza non è eterna. Penso che la ginnastica come la conosciamo sia l’anti-tesi dell’Art du Déplacement, come lo è l’esclusiva e frenetica ricerca della discutibile utilità.
La parte creativa inerente a l’Art du Déplacement autorizza l’individuo a mantenere un alto livello di motivazione, quindi d’impegno. Naturalmente ne esce valorizzata la performance individuale accanto a quella universale.
Il lavoro costante, veritabile e concreto dell’Art du Déplacement tra visibile e invisibile, tra corpo e testa, punta ad una reale armonia. Può essere stancante e richiede una certa tenacia ma allo stesso tempo è una fonte di stimoli inesorabile. Ogni giorno offre la possibilità d’una sfida su più livelli: Mentale, fisico e tecnico. Ed ogni livello è ricco di sfumature e variazioni.
Una vita non basta a domarli.
Non c’è tempo da perdere.